Il futuro dell’innovazione va in scena presso l’Ateneo barese
Lunedì 19 gennaio l’Ateneo barese ha ospitato l’evento “Politiche per l’innovazione, terza missione e sviluppo del territorio“, organizzato dall’associazione Stati Generali dell’Innovazione e dall’Università degli Studi di Bari.
Il fine dell’evento era principalmente quello di valutare lo stato dell’arte in materia di innovazione in Puglia e comprendere le prospettive che si stanno man mano aprendo, sia grazie alla spinta del governo regionale, sia per effetto del movimento che si sta sviluppando all”interno dell’Università di Bari.
Grande interesse e partecipazione hanno riscosso tanto l’evento principale quanto i due open talk, uno dedicato all’innovazione nelle PMI e l’altro al passaggio dei giovani alla dimensione imprenditoriale, quest’ultima favorita dalle recenti normative in materia di startup innovative ed equity crowdfunding.
Startup Club ha partecipato al secondo, nel quale sono emerse le principali difficoltà e problematiche che caratterizzano la fase di startup e, al contempo, le opportunità che anche nella regione Puglia stanno pian piano emergendo a favore di chi sceglie la strada tortuosa ma affascinante del fare impresa.
L’Open Talk sul passaggio dei giovani alla dimensione imprenditoriale e sulle startup innovative
L’open talk dedicato all’imprenditoria giovanile e alle startup innovative, animato dal prof. Semeraro e dalla dott.ssa Tucci, ha catturato subito il nostro interesse, per cui al momento della presentazione dei due sub-eventi previsti dal programma non abbiamo esitato a prendervi parte.
La discussione mirava a capire, dai giovani e dagli addetti ai lavori, le principali difficoltà che si incontrano nel fare impresa, sopratutto in materia innovativa, e le soluzioni che si stanno adottando per colmare il gap, nonchè quelle più necessarie e urgenti. Vediamo insieme alcuni interessanti contributi emersi dalla platea dei partecipanti.
La burocrazia rimane uno dei freni principali per gli imprenditori
Il primo intervento ha riguardato una delle classiche “spine nel fianco” del nostro Paese: la complicata e controversa burocrazia che ci caratterizza da sempre.
Uno dei giovani soci di Zenfeed, startup nata dal genio di alcuni studenti della Facoltà di Informatica di Bari e oggi incubata da Luiss EnLabs, ha infatti evidenziato le difficoltà incontrate sia in fase di costituzione societaria, sia in quella di iscrizione della loro startup nello speciale registro dedicato alle startup innovative.
Difficoltà dovute per lo più alla scarsa dimestichezza di alcuni dei professionisti incontrati durante il percorso costitutivo e alla stessa mancanza di competenza ed esperienza da parte della Camera di Commercio di riferimento.
Aggiungiamo la nostra riflessione al proposito, frutto dell’esperienza diretta maturata in questi anni. E’ vero che la normativa sulle startup innovative ha appena due anni di vita, ma non è pensabile che sia i commercialisti – che necessariamente sono i primi interlocutori degli imprenditori o aspiranti tali – e ancor più le Camere di Commercio, non sappiano dove mettere le mani una volta che le norme sono già in vigore. Ciò purtroppo accade solo in Italia (…o quasi).
In fondo è sufficiente studiare per mezza giornata il testo della normativa oppure realizzare una giornata di formazione in tempi adeguati per superare quelle che sono difficoltà per lo più organizzative e dovute ad una carente cultura d’impresa, che si riversa sull’approccio professionale.
Ancor più rilevante un “abuso” che la normativa favorisce nella sua fase applicativa, che potrebbe rivelarsi deleterio per molte startup nei prossimi anni: l’autocertificazione dei requisiti richiesti per essere iscritti nel registro speciale tenuto dalle Camere di Commercio.
Ciò significa delegare ai giovani imprenditori e, soprattutto, agli amministratori di queste piccole e neonate startup, per lo più inesperti e ansiosi di crearsi un futuro, il delicato compito di stabilire se la loro è o meno una startup innovativa, ovvero se aveva e continua ad avere i requisiti per esserlo.
La conseguenza è che se un giorno ci si dovesse accorgere che alcune di queste startup erano carenti fin dall’origine dei requisiti previsti dalla legge, questi giovani ed ambiziosi imprenditori potrebbero anche rischiare di buttare per aria anni di lavoro e l’impresa costruita con tanto impegno a causa delle responsabilità civili, penali e tributarie che ne conseguirebbero. Un argomento su cui si deve senz’altro riflettere.
Incubatori certificati, acceleratori d’impresa e investitori
Altro aspetto lamentato dagli startupper è stato quello relativo alla mancanza di incubatori certificati e acceleratori d’impresa qualificati nella nostra regione, nonchè di business angels e venture capital.
L’argomento è anch’esso delicato e ricco di spunti. Va anzitutto evidenziato che questa “lamentela” ha indotto all’intervento un responsabile di Laser Inn, società a partecipazione pubblica, che dal maggio 2014 ha iniziato a svolgere attività di incubazione d’impresa.
Laser Inn offre la propria esperienza pluriennale, il mentoring ed advisors competenti a favore delle startup che entrano a far parte del suo programma di incubazione in cambio di equity. Il sistema utilizzato – anche se non è stato precisato – dovrebbe essere quello del “work for equity“, uno degli strumenti riservati alle startup innovative, che consente di pagare i compensi dei professionisti che svolgono la loro attività a favore delle startup in tutto o in parte mediante quote di capitale.
Sarebbe stato interessante capire in che misura avviene questa compensazione fra apporto professionale ed equity, visto che non si è parlato di investimenti in denaro.
Quest’ultimo aspetto ormai imprescindibile quando si parla di impresa e di startup in particolare, visto che termini come “seed”, “round”, “business angel” e “venture capital” stanno diventando di uso comune anche in un Paese arretrato come il nostro.
Riteniamo che questo sforzo della società barese, apprezzabile e sicuramente nuovo anche nell’approccio, non sia sufficiente per colmare il gap che ci separa attualmente da altre regioni, fra cui la Campania, oggi perla del movimento “startupparo” del Sud Italia.
Siamo i primi a credere che alle startup servano professionisti preparati e qualificati, ma siamo altresì convinti che bisogna incentivare la cultura dell’investimento in startup nella nostra regione.
Questo si fa creando interesse e informazione soprattutto fra gli imprenditori, facendogli comprendere i benifici assoluti che possono ricevere.
Perchè le startup innovative sono per loro un laboratorio di ricerca quasi a costo zero, visto che con investimenti anche fortemente detassati (e quindi col doppio vantaggio di poter diventare soci di interessanti startup, abbassando contemporaneamente la propria pressione fiscale), le PMI possono costruire un futuro roseo per se stesse e per quei giovani che stanno svolgendo un lavoro che viene loro risparmiato e servito su un piatto d’argento.
Equity Crowdfunding: opportunità vera o scatola vuota?
Nell’open talk sulle startup innovative si è parlato molto anche di crowdfunding, in particolare della formula “equity based” che è stata regolamentata dall’Italia in anteprima mondiale. Un record che forse potevamo rispiarmarci…
I numeri del primo anno di attività non sono molto confortanti. Le tre piattaforme che per prime sono state autorizzate dalla Consob hanno raccolto in totale poco più di 1 milione di euro e sono riuscite a finanziare un progetto a testa. Pochino per un mercato che sembrava essere una nuova “gallina dalle uova d’oro”, pronta a portarci fuori dalla crisi.
L’entusiasmo che hanno espresso alcuni dei giovani startupper in aula non è giustificato finora dai numeri. Come è stato giustamente evidenziato da una consulente d’azienda esperta del settore, il grosso della raccolta nel crowdfunding si fa all’estero, su due piattaforme che sono Kickstarter e Indieogogo, capaci di raccogliere qualche miliardo di dollari all’anno.
Sulle piattaforme citate si trovano anche progetti italiani di successo e, soprattutto, si fa ancora crowdfunding “reward based”, cioè una forma che somiglia alla donazione e non ha nulla a che fare con l’acquisto di quote di partecipazione societaria. Anche questo deve farci riflettere.
L’apertura americana verso il crowdfunding “equity based” con il famoso Jobs Act di Obama non ha portato ancora a regolamentare puntualmente il settore. Questo per due motivi:
- negli USA i venture capital non sono paragonabili a divinità come in Italia, ma li trovi tranquillamente in un bar di San Francisco pronti ad ascoltare il tuo pitch e a chiederti un successivo appuntamento;
- il crowdfunding per gli americani è più uno strumento di marketing e di prevendita che non un vero e proprio strumento di finanziamento delle startup (nonostante il successo di campagne anche milionarie sulle piattaforme citate).
In sostanza il crowdfunding in Italia manca dell’aspetto fondamentale che potrebbe dargli la consacrazione definitiva: la crowd, la folla di piccoli investitori pronti a puntare parte dei propri risparmi in startup.
Un’idea che difficilmente vedremo realizzarsi nell’arco di poco tempo, perchè l’Italia non è un Paese per giovani ed innovatori e manca la cultura d’impresa. Ciò nonostante i condivisibili dubbi sulla restrittività della normativa attuale in materia di investitori privati.
E allora in che direzione muoversi? Secondo noi si tratta di quella poc’anzi delineata, vale a dire imprese e investitori professionali, che più facilmente possono essere avvicinati a questo mondo e diventarne protagonisti, a tutto vantaggio loro e delle stesse startup che chiederanno di essere finanziate.
Ciò a maggior ragione con le novità che stanno per entrare in vigore, che prevedono l’estensione dell’equity crowdfunding a favore delle PMI innovative, quindi di imprese già strutturate, che fanno fatturato e possono più facilmente dimostrare la bontà dei loro progetti.
Tanti spunti interessanti quindi, tanto fermento e tanta voglia di fare in una regione come la Puglia che sta diventando un po’ la perla dell’imprenditoria del Sud, ma che è ormai chiamata a fare il salto di qualità.
Perchè adesso bisogna fare rete, sistema, unire le competenze e le intelligenze di notevole portata già presenti nella regione e provare a creare una Silicon Valley italiana, dove la creatività tipica del Bel Paese si unisce alle competenze anche estere che siamo ormai in grado di attrarre.